La battaglia per l’open | Cap. 3 – La pubblicazione in Open Access | Par. 2 – Il successo dell’Open Access

LA BATTAGLIA PER L’OPEN: traduzione italiana curata da Simone Aliprandi del libro “The battle for open” di Martin Weller. Informazioni complete sul progetto di traduzione in questo post. Puoi suggerire miglioramenti nella traduzione aggiungendo un commento a questo post.

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Capitolo 3 – La pubblicazione in Open Access
Paragrafo 2 – Il successo dell’Open Access
La pubblicazione in Open Access come abbiamo visto iniziò nel 1990 prendendo ispirazione dalle comunità open source e osservando che il contenuto digitale e in rete aveva cambiato la natura della divulgazione. Open Access è generalmente interpretato con il significato di “accesso online e gratuito a lavori accademici”, anche se la Budapest Open Access Initiative (2002) ne dà una definizione più precisa, che comprende il significato di free access non solo in termini di costo, ma anche di accesso libero dai limiti di copyright:

Per “accesso aperto” a tale letteratura intendiamo la sua disponibilità pubblica e gratuita in Internet, e la possibilità per ogni utente di leggere, scaricare, copiare, diffondere, stampare, cercare, o linkare al testo completo degli articoli, di analizzarli e indicizzarli, di trasferirne i dati in un software, o usarli per ogni altro utilizzo legale, senza ulteriori barriere (legali, tecniche o finanziarie) se non quelle relative all’accesso a Internet. L’unico vincolo riguardo la riproduzione e la distribuzione, e l’unica funzione del copyright in questo ambito, dovrebbe essere la tutela dell’integrità del lavoro degli autori e il diritto di essere debitamente riconosciuti e citati.

Questo ricorda la distinzione tra free cost e free reuse (gratuito e riutilizzabile liberamente) che fa Stallman riguardo al software. Anche se la definizione di Open Access non è controversa come altri termini che incontreremo, il percorso lo è. Ci sono due metodi principali che consentono l’Open Access:

  • La Gold road, secondo cui sono gli editori a mettere la rivista (o l’articolo) in Open Access. Per le case editrici i guadagni che di norma venivano presi dal modello privato di iscrizione all’archivio devono essere recuperati, e questo può avvenire con l’applicazione dell’APC. Uno studio su 1.370 periodici pubblicati nel 2010 ha parlato di un range tra gli 8 e 3.900 dollari con un APC medio di 906 dollari (Solomon&Bjork 2012). La Gold road comunque non richiede un APC, è solo un modello per renderla fattibile.
  • La Green road, in cui l’autore archivia lui stesso una copia dell’articolo sia sul proprio sito sia su un archivio istituzionale.
Con la scelta del percorso Gold l’enfasi è posta sulla rivista, mentre con la scelta Green sugli archivi online. A queste si aggiunge poi una terza opzione, chiamata Platinum, in cui il giornale non applica nessun APC e pubblica in Open Access, ma questa può essere vista come una variante della Gold road. Riviste di questo tipo sono di solito gestite da società o università per le quali la rendita finanziaria è di minore importanza rispetto alla diffusione.
In realtà le cose stanno in modo un po’ più complesso. Per quanto riguarda la Green road, ciò che è “green” può variare. Molti editori metteranno un embargo per un determinato periodo, decidendo che un articolo non può essere archiviato autonomamente prima di un certo lasso di tempo, che può variare dai 6 ai 18 mesi. Nelle sue policy Open Access l’Office of Science and Technology Policy americano (OSTP) ha un embargo di 12 mesi (Holdren 2013), mentre Science Europe (2013) chiede solo 6 mesi. La Gold road può essere usata in modo ibrido, per cui in una rivista alcuni articoli sono Open Access ma non tutti. In questo caso gli editori ancora applicano una tariffa per l’abbonamento alla rivista, anche se può essere ridotta, e ricevono un APC per i singoli articoli. Può essere visto come un modello di transizione all’Open Access, ma alcuni ritengono che sia solo un modo per guadagnare due volte dalla stessa rivista (Harnard 2012). Science Europe prende una posizione molto chiara contro il modello ibrido, dichiarando che “come è attualmente strutturato e implementato dagli editori non è un percorso fattibile e che può funzionare per l’Open Access. Tutti i modelli di transizione all’Open Access sostenuti dalla Science Europe Member Organisation infatti devono essere contrari al ‘doppio gioco’ e aumentare la trasparenza sui costi”. Per quanto riguarda i diritti, è ancora possibile fare in modo che un articolo sia disponibile in modalità open, ma le definizioni di Open Access sottolineano il fatto che il riutilizzo è fondamentale, quindi l’uso delle licenze Creative Commons diventa la norma.
La diffusione dell’Open Access ha avuto grande successo. Laakso e altri (2011) hanno tracciato la crescita delle riviste OA e degli articoli dal 1990 come mostrato nella Figura 1.
Allo stesso modo il progetto ROARMAP (Registry of Open Access Repositories Mandatory Archiving Policies) della University of Southampton mostra i numeri delle politiche Open Access a livello istituzionale, a livello di finanziatori e a livello teorico. Il modello qui è un po’ in ritardo rispetto a quanto visto con le riviste OA, dato che le politiche sono entrate in vigore solo quando l’OA è diventato una pratica consolidata, ma mostrano lo stesso un trend di sostanziale crescita dal 2003 al 2013 (Figura 2). Entrambi i trend sembrano andare in una direzione precisa, e non c’è nessuna ragione per supporre che rimarranno stabili o scenderanno. Un recente studio di Wiley ha scoperto che il 59% degli autori ha pubblicato su riviste OA, la prima volta cioè che la proporzione ha superato la metà (Warne 2013). Le pubblicazioni in Open Access non sono più una questione di nicchia, riservata a coloro che ne hanno una particolare attrazione. È diventata una pratica mainstream. E questo è in linea con quanto discusso nel capitolo 1.
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Prima di esaminare i problemi che in questo momento affliggono l’OA, vale la pena di considerare le ragioni di una così ampia diffusione. Gli argomenti a favore dell’Open Access rientrano in generale in due campi, che riflettono quelli dei movimenti free e open source – e cioè che l’Open Access è un efficiente modo di operare ed ha una forte base etica.
Può essere considerato efficace dalla prospettiva di un autore che vuole che il suo lavoro sia letto e citato da più persone possibili. Potrebbe sembrare logico infatti che articoli pubblicati senza nessuna restrizione di accesso ricevano più attenzione di quelli in database privati, ai quali si deve accedere attraverso biblioteche (o acquistati con una logica di singolo articolo). Dall’influenza del web 2.0 sulla open education sappiamo che ci si aspetta un contenuto gratuito, e quindi i lettori che trovano un articolo che richiede un pagamento semplicemente vanno a cercare altro. Anche i social media possono essere visti come modi per mettere pressione Open Access sugli articoli. Per condividere le risorse in modo efficace su Twitter o con altri mezzi infatti, l’articolo deve essere già disponibile in modalità open. Serve a poco condividere un link ad un articolo interessante se questo richiede un pagamento di 50 dollari per leggerlo. Anche se la maggior parte dei lettori sono accademici, le istituzioni che li ospitano potrebbero non avere sempre l’accesso a quella particolare rivista. Dal 2001 (Lawrence 2001) ci sono state crescenti prove del fatto che articoli disponibili in modalità open hanno più download e citazioni di quelli in database privati, come Gargouri e altri (2010) riassumono: “Questo ‘vantaggio dell’impatto OA’ si ritrova in tutti i campi analizzati fino ad ora – fisico, tecnologico, biologico, di scienze sociali e umanistico”. L’Open Citation Project (2013) ha un’ampia bibliografia di studi che dimostrano questo effetto. Alcuni studi riportano che le citazioni non sono aumentate ma il numero di download sì, a volte di percentuali sostanziali, per esempio Davis e altri (2008) parlano di un aumento dell’89% di download di testi completi per articoli in Open Access.
Nell’esaminare le motivazioni per cui gli accademici pubblicano su giornali peer reviewed, Hemming e altri (2006) suggeriscono tre categorie di fattori: incentivo, pressione e supporto. L’incentivo è il più saliente e può prendere forme intrinseche come la condivisione di risultati, e forme estrinseche come l’aumento di possibilità di promozione. Dato che gli universitari sono di rado pagati per i loro contributi, il vantaggio dell’impatto Open Access sta nella motivazione a cercare stimoli – anche se il principale obiettivo è quello di aumentare l’interesse nell’area o di migliorare un profilo individuale, quindi incrementare il numero di download e citazioni di un articolo facilmente andrà a beneficio di tutto ciò. Questa tendenza è solo contrastata dal prestigio che viene dal pubblicare su certe riviste, che siano esse open o no.
La pubblicazione in Open Access opera come modello efficiente e pragmatico per divulgare i risultati della ricerca, che è uno degli scopi principali delle pubblicazioni universitarie, e ha anche una forte argomentazione etica, o ideologica, a suo supporto, dato che molti fondi per gli studi che vengono pubblicati sulle riviste provengono da risorse pubbliche. Questo va a formare il principio cardine della maggior parte delle policy Open Access: per esempio la Wellcome Trust (senza data), un’organizzazione benefica che finanzia la ricerca medica, dichiara: “crediamo che massimizzare la diffusione di queste ricerche – garantendone l’accesso gratuito, libero e online – sia il modo migliore per assicurarsi che l’analisi che noi finanziamo sia accessibile, letta e sviluppata”.
La policy dell’americana OSTP (Holdren 2013) dice che “i risultati diretti della ricerca scientifica supportata da fondi federali sono messi a disposizione di pubblico, aziende e comunità scientifica”. Qui c’è un dibattito molto acceso e cioè che se il pubblico paga per la ricerca allora deve averne accesso. C’è anche un ulteriore argomentazione che sostiene che la ricerca progredisce solo con la condivisione tra il maggior numero di persone possibili, e che l’accesso ad essa (non importa chi sia il finanziatore) dovrebbe essere praticabile. Mike Taylor (2013a) lo dice senza mezzi termini: “Pubblicare la scienza dietro compenso è immorale”. La combinazione di questi dibattiti pratici ed etici ha reso difficile giustificare o mantenere le pratiche esistenti che traggono profitti dalle pubblicazioni accademiche. Come vedremo con altri aspetti dell’openness, il dibattito diventa affascinante. È dove la battaglia per l’openness ha inizio, come vedremo.

Fonte: http://aliprandi.blogspot.com/2020/11/la-battaglia-per-lopen-cap-3-la_1.html

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