La battaglia per l’open | Cap. 1 – La vittoria dell’open | Par. 1 – Introduzione

LA BATTAGLIA PER L’OPEN: traduzione italiana curata da Simone Aliprandi del libro “The battle for open” di Martin Weller. Informazioni complete sul progetto di traduzione in questo post.
Puoi suggerire miglioramenti nella traduzione aggiungendo un commento a questo post.
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Capitolo 1 – La vittoria dell’open
Paragrafo 1 – Introduzione
battle open italian aliprandi

L’openness in questo momento è ovunque nel settore dell’istruzione: alla fine del 2011 un corso gratuito in intelligenza artificiale contava più di 160.000 iscritti (Leckart 2012); nel 2012 il governo del Regno Unito seguì quanto già fatto da altri enti nazionali negli USA e in Canada e annunciò la regola per cui tutti gli articoli finanziati da fondi pubblici per la ricerca dovevano essere messi a disposizione in Open Access (Finch Group 2012); i download dal sito Apple iTunes U, che fornisce gratuitamente contenuti per la formazione, hanno superato il miliardo nel 2013 (Robertson 2013); la British Columbia annunciò nel 2012 una politica per la quale i testi dei 40 corsi più popolari sarebbero stati messi a disposizione in modalità open e gratuitamente (Gilmore 2012); i leader del G8 hanno firmato un trattato sugli open data nel giugno 2013 stabilendo che tutti i dati governativi sarebbero stati rilasciati open automaticamente (Ufficio del Governo britannico 2013). A parte questi dati più evidenti ci sono poi cambiamenti fondamentali nella pratica: gli accademici stanno già creando e rilasciando i loro contenuti con strumenti come Slideshare o Youtube; i ricercatori condividono risultati in tempi ridotti usando approcci open e crowdsourcing; ogni giorno milioni di persone usano strumenti e risorse gratuiti e disponibili online per imparare e per condividere.

In effetti l’openness è oggi una parte così importante della nostra quotidianità che sembra superfluo qualsiasi commento. Ma non è stato sempre così, o almeno non sembrava essere qualcosa di inevitabile o prevedibile. Alla fine degli anni ’90, quando l’esplosione del dotcom prese piede, c’era molto scetticismo riguardo a quei modelli di business (per gran parte giustificato dopo il collasso) e lo stesso per la bolla del web 2.0 dieci anni dopo. Ma nonostante molti dei modelli di business non fossero sostenibili, i modelli tradizionali che prevedevano di pagare per i contenuti hanno mostrato di non interferire con l’espansione del nuovo dominio digitale. “Diffondere i contenuti” non è più un approccio da sottovalutare.
In nessun altro contesto l’openness ha giocato un ruolo così rilevante come nel caso dell’istruzione. Molti dei pionieri dei movimenti open vengono dalle università. I ruoli chiave degli accademici sono tutti soggetti ad un radicale cambiamento sotto il modello open: dai Massive Open Online Courses (MOOCs) che sfidano i metodi di insegnamento ai repository di articoli in versione “pre-print” che minano il tradizionale sistema di divulgazione e rivisitano il modello di ricerca, la filosofia open tocca tutti gli aspetti dell’istruzione superiore.
L’openness ha una lunga storia in questo settore: si fonda sull’idea di altruismo e sulla convinzione che la formazione sia un bene pubblico, idea che nel tempo ha subìto molte interpretazioni e adattamenti, partendo da un modello che aveva come obiettivo principale il libero accesso allo studio e arrivando ad un modello che enfatizza invece contenuti e risorse disponibili in modalità open. Il cambiamento è stato in gran parte una conseguenza della rivoluzione digitale: i progressi in altri settori, come la produzione di software open source e l’introduzione di valori associati al libero accesso ad internet, insieme ad approcci open, hanno influenzato (e sono stati a loro volta influenzati da) professionisti nel campo dell’istruzione superiore. Il decennio passato ha visto la crescita di un movimento globale che ha ottenuto fondi importanti da enti come la William and Flora Hewlett Foundation e da vari comitati di ricerca. Attivisti nell’ambito universitario hanno cercato di creare programmi che consentano di rilasciare contenuti – dati, risorse didattiche e pubblicazioni – in modalità open; altri hanno invece adottato pratiche open che sfruttano social media e blog. Ciò è avvenuto sia in contemporanea ad un lavoro sulle licenze open, soprattutto le Creative Commons che consentono un facile riutilizzo e adattamento dei contenuti, sia a livello politico con gruppi di pressione che chiedevano l’adozione a livello nazionale e locale di contenuti open e risorse condivise, sia con il miglioramento di tecnologie e infrastrutture che consentono all’open di essere allo stesso tempo facile e poco costoso.
Ci si potrebbe allora aspettare che sia il momento buono per i sostenitori della openness per cantare vittoria. Dopo aver lottato così a lungo perché il loro messaggio fosse ascoltato, sono ora corteggiati da dirigenti e manager per la loro esperienza e per il loro punto di vista sulle varie strategie open. Si parla di approcci open nei maggiori mass-media, milioni di persone stanno ampliando le loro conoscenze con risorse e corsi aperti. In poche parole sembra che l’openness abbia vinto. Eppure si trova a fatica qualche traccia di celebrazione da parte di questi stessi primi sostenitori, che sono piuttosto sconfortati dalla reinterpretazione del concetto di open come “free” o “online”, che non fa cenno alle libertà di riutilizzo che avevano inizialmente immaginato. Sono preoccupati dalla crescita di interessi commerciali che usano l’openness come uno strumento di marketing e sono in dubbio sui vantaggi di alcuni modelli per i paesi in via di sviluppo o per studenti che hanno bisogno di supporto. In questo momento vittorioso sembra dunque che la narrativa sull’open sia stata usurpata da altri, e che le conseguenze non possano essere molto open. Nel 2012 Gardner Campbell ha tenuto una presentazione alla Open Education Conference (Campbell 2012) in cui ha espresso preoccupazioni e frustrazioni: «Ciò a cui stiamo assistendo – ha dichiarato – sono sviluppi nell’istruzione superiore che sembrano soddisfare tutti i criteri che abbiamo stabilito per il settore: maggiore accessibilità, diminuzione dei costi, tutti elementi che permetteranno l’accesso a più persone su scala planetaria, a un miliardo di studenti alla volta… Non è questo ciò a cui stavamo pensando?» Ma man mano che presentava i successi il suo ritornello era sempre quello di T.S. Eliot: non era per niente ciò che avevo immaginato. Perché dunque questa ambivalenza? Possiamo dire che sono solo mele marce? I sostenitori dell’open stanno recriminando il fatto che altri ora rivendichino l’openness? È solo un esercizio sull’interpretazione semantica che interessa una manciata di accademici o piuttosto è qualcosa di fondamentale, che riguarda la strada dell’openness e il modo in cui si sviluppa? È proprio questa ambivalenza tra la vittoria e allo stesso tempo l’ansia legata all’open che il libro intende esplorare.

Fonte: http://aliprandi.blogspot.com/2020/02/battaglia-open-cap1-vittoria-open-par1.html

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