L’opensource sopravviverà al cloud?

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Sappiamo tutti che alla base di quello che muove questa fantomatica parola non ci sono altro che server, sistemi e software; e, nella stragrande maggioranza dei casi, non generico software, bensì software open source.

Da Linux a MariaDB, a Kubernetes, passando per MongoDB ed Apache, le ultime decadi di open source hanno portato la base per offrire questi fantomatici “servizi cloud” che tutti stanno mettendo sul piatto delle offerte.

Il problema nasce da come ultimamente questi servizi vengono offerti, ed il sistema che si sta delineando sta gettando ombra sul modello di business dietro all’open source, quello che ha portato alla nascita ed alla proliferazione di tante aziende a noi, amanti del pinguino, più o meno care.

Il tutto si basa su incentivi: gli sviluppatori indipendenti hanno bisogno di incentivi per donare tempo ed abilità ai progetti open source e, parallelamente, gli imprenditori hanno bisogno di incentivi per costruire aziende intorno a questi progetti che li aiutino a crescere.

Molte di queste aziende che forniscono le cosiddette “public cloud” però, hanno implementato delle dinamiche che vanno a tarpare questi incentivi; è molto facile per questi big prendere progetti open source ed offrirli come “sistemi gestiti” ma, se questo viene fatto senza riversare nella community effort, vanno a sfruttare il lavoro degli altri senza generare gli incentivi di cui tutti, sviluppatori ed imprenditori, necessitano per abbracciare quello stesso progetto.

Recentemente abbiamo parlato della diatriba di MongoDB che, accusando diversi player di rivendere il loro software come servizio, ha modificato la proprio licenza per evitare questa cosa; e non è l’unica, altri – come Confluent o Redis Lab – hanno seguito l’onda e fatto qualcosa di simile.

Il problema è che queste nuove licenze che si stanno delineando ancora non sono ufficialmente riconosciute dal mondo open source (e dalla OSI) e rischiano di confondere sui reali diritti sull’uso di software open source. Il presidente della Software Freedom Conservancy, Bradley M. Kuhn, ha detto:

Software freedom should be equal for everyone, whether they’re a commercial actor or not

La libertà del software deve essere uguale per tutti, siano essi attori commerciali o non

Il principio è corretto, ma è valido quando tutti lo rispettano; ma se queste nuove licenze non sono la soluzione, quale può essere?

In primo luogo i grossi provider dovrebbero stare alle regole del “gioco”; è normale e corretto che l’atteggiamento sia quello di proteggere il proprio business, ma dovrebbero riconoscere il fatto che minare le fondamenta dell’open source, nel lungo periodo, farebbe male a loro come a tutti gli altri.

Altra soluzione potrebbe essere la necessità di un “codice etico” per l’open source, creato dalla community e dalle organizzazioni open source (come la stessa OSI); quello che è chiaro è che, nonostante si resti al 100% congruenti con una data licenza open source, ci si può comportare in modo da danneggiare la community; l’avere un codice etico di riferimento potrebbe colmare questa “zona grigia”.

Come è possibile risolvere la questione?

Fonte: https://www.miamammausalinux.org/2019/04/lopensource-sopravvivera-al-cloud/

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